Biomonitoraggio ambientale

Il biomonitoraggio ha come fine la valutazione degli effetti prodotti dalle modificazioni ambientali sugli organismi viventi. Le maggiori conoscenze sulla storia naturale della terra ci hanno permesso di capire meglio la continua evoluzione subita dal nostro pianeta, nell’arco della sua esistenza.

Oggi i cambiamenti ambientali, diversamente dal passato, sono diventati molto più repentini a causa delle attività umane che, per via dell’aumento demografico, hanno un peso sempre maggiore sull’ecosistema terra. La crescente urbanizzazione, la realizzazione di nuove aree industriali, inceneritori, dighe, centrali elettriche, discariche, aeroporti, strade ed autostrade comporta la formazione di nuovi equilibri tra gli organismi che continuano ad essere parte integrante del nuovo ecosistema.

Da qui l’idea di utilizzare come indicatori ambientali proprio organismi vegetali o animali che, con la loro presenza-assenza e con il loro pullulamento, nella ricerca di un diverso equilibrio con il nuovo ambiente, ci informeranno sullo stato di salute di un ecosistema. Gli indicatori biologici ci aiutano a superare le grandi difficoltà insite nell’interpretazione della complessità dei fenomeni d’inquinamento del Pianeta, ovviando ai frequenti errori di lettura da parte dei responsabili della tutela del nostro patrimonio naturale. Cito in proposito Giorgio Celli e Claudio Porrini (1991), che definiscono queste sentinelle ecologiche come “rappresentazioni sintetiche di realtà complesse”, presenti e passate, in grado di comunicarci non un’emergenza ma una costellazione di emergenze.

Storia del biomonitoraggio

I primi studi sull’impiego di indicatori ambientali risalgono a circa metà del XIX sec., (A. Grindon, 1859 e W. Nylander, 1866), e si riferiscono ai licheni, associazioni simbiontiche tra funghi ed alghe, i quali con la loro graduale scomparsa dai grandi centri urbani e da aree fortemente industrializzate, sono considerati dei buoni indicatori dell’inquinamento atmosferico a bassa concentrazione. Molti altri organismi, sempre in qualità di bioindicatori, vengono utilizzati per valutare la qualità delle acque superficiali (macroinvertebrati), l’inquinamento atmosferico (piante) e le condizioni di degrado di un biotopo (insetti pronubi selvatici). Ricordiamo il celeberrimo caso della Biston betularia G. ed il fenomeno del melanismo industriale verificatosi in Inghilterra alla fine del secolo scorso. Questo lepidottero geometride mostrava nella popolazione due forme cromatiche diverse: una con ali bianche a puntini neri e l’altra nera a puntini bianchi, assai rara, e battezzata per l’occasione “carbonaria”.

Con il crescente sviluppo delle industrie carbosiderurgiche, che scaricavano nei boschi limitrofi ingenti quantità di contaminanti, si manifestò un aumento degli individui con ali nere, perché meglio resistevano alla pressione predatoria (uccelli insettivori), essendo dotati di ali omocrome alla corteccia annerita degli alberi inquinati. In tal modo, resta facile intuire che la maggior prevalenza nella popolazione degli individui ad ali bianche era indice di benessere ambientale (Bishop e Cook, 1975). Un altro esempio sono le meravigliose e piccole api, che oltre a svolgere il servizio d’impollinazione, compito ormai indispensabile nei campi coltivati, ci forniscono informazioni precise, dirette e indirette, su molecole inquinanti, in largo uso nell’agricoltura intensiva, come i fitofarmaci (insetticidi, erbicidi ed anticrittogamici).

Questi insostituibili insetti, in veste di biomonitori, ci possono fornire “informazioni dirette”, che sono facilmente individuabili da una mortalità anormale, effetto di uno o più agenti inquinanti, e “informazioni indirette”, ottenibili analizzando con attenzione il loro corpo e/o i loro prodotti quali: miele, cera, propoli e polline (che possono essere considerati degli ottimi serbatoi dove la molecola chimica incriminata viene ad accumularsi) (Anderson e Atkins, 1958; Anderson e Tuff, 1952; Celli, 1983; Celli e Gattavecchia, 1983; Celli et al., 1985; Celli e Porrini, 1987; Ricciardelli D’albore et al., 1993).

Storia del biomonitoraggio con api

L’impiego dell’ape nel monitoraggio ambientale risale al lontano 1935, quando Jaroslav Svoboda, dell’Istituto delle Ricerche in Apicoltura (Praga), verificò le ripercussioni negative degli inquinanti industriali nei confronti delle api che bottinavano1 nelle zone altamente antropizzate ed industrializzate della Cecoslovacchia.

Successivamente, numerosissimi lavori furono portati a termine sull’efficacia di questo imenottero come indicatore della presenza di molti contaminanti nell’ambiente (Giovani et al., 1991; Ravetto et al., 1987). Lo stesso Svoboda et al. negli anni ‘60 riscontrarono un aumento dello stronzio radioattivo sia nelle apiche nei loro prodotti, molto probabilmente a causa degli esperimenti nucleari in corso in quel periodo. Interessante è lo studio portato a termine da Jerry Bromenschenk dell’Università del Montana negli anni ‘70. Egli fece uso delle api per verificare l’impatto ambientale di una centrale elettrica a carbone da 350 megawatt, prima e dopo la sua realizzazione. A seguito della sua attivazione, furono riscontrati nelle api quantitativi molto più elevati di fluoro (sottoprodotto della combustione del carbone) che non prima. Lo stesso Bromenschenk, successivamente, promosse molti progetti di monitoraggio con le api in numerose zone industriali dello stato di Washington e del Montana. Ricordiamo altri lavori atti a monitorare la presenza di metalli pesanti, con alveari posti a distanze variabili dalle sorgenti dei contaminanti considerati, utilizzando come matrici api morte, miele, polline e propoli (Cavalchi e Fornaciari, 1983). Nei piccoli e grandi centri urbani si è fatto ricorso a questo apoideo per il rilevamento di vari inquinanti urbani (Accorti e Pesaro Oddo, 1984; Cesco et al., 1994).

In un’altra ricerca di Giorgio Celli e Claudio Porrini (1986), furono messi a confronto i diversi quantitativi di piombo presenti in due tipi di miele: uno prodotto in campagna e l’altro prodotto in città (Reggio Emilia); quest’ultimo conteneva, in proporzione, livelli di piombo 80 volte più elevati rispetto a quello più incontaminato di campagna.
Per la diversa natura, persistenza e degradabilità degli inquinanti presenti nei mieli (nei diversi lavori citati), oltre che per la diversa morfologia fiorale2 (Celli e Porrini, 1988) delle piante bottinate per produrlo i risultati sono discordanti tra loro. Pourtaillier (1985) spiega che la presenza di enzimi degradanti3 nel miele, favorisce una notevole diminuzione della concentrazione delle molecole insetticide; ad esempio uno sciroppo contenente 5 p.p.m. di Parathion bottinato dalle api si è tradotto in un miele che presentava 0,8 p.p.m. della stessa molecola.

Nel corpo delle api avviene l’opposto. Se si considera il gran numero di fiori visitati da un’ape durante un singolo volo e se si pensa alla quantità di particelle inquinanti che, molto spesso, si trovano sui fiori o si mescolano nell’aria, quell’aria oltretutto da loro così ossessivamente frequentata, è possibile immaginare il loro corpo (ricco di peli) come un potenziale accumulatore di corpuscoli inquinanti che, (come in un filtro) inevitabilmente, si concentrano. In termini semplicistici ci troviamo di fronte ad un fenomeno di magnificazione biologica. In merito a quanto detto, Pratt e Sikorski (1982) presero in considerazione due zone distanti tra loro 1.000 km, di cui una fortemente antropizzata e l’altra assolutamente incontaminata. In tutti e due i casi furono prese in considerazione due erbe spontanee, la Daucus carota L. e la Solidago virga-aurea L. Queste rivelarono che nella prima zona la presenza media di piombo si attestava su 13,6 p.p.m. mentre nella seconda il quantitativo medio era di 0.2 p.p.m. L’esame delle api bottinatrici di queste essenze erbacee mise in luce che la presenza di piombo era rispettivamente di 28,1 p.p.m. nell’area urbanizzata e di 1,4 p.p.m. nell’altra; il confronto dei dati tra i due esempi (sopra citati) indicano inequivocabilmente l’aumento della concentrazione di piombo sul loro corpo.

I molteplici utilizzi delle api sono: cercatrice di tesori nascosti (Lilley, 1983), sentinella per la conservazione dell’ambiente (Ricciardelli D’albore, 1994), produttrice di miele, propoli, ecc., vettore dell’impollinazione controllata, guardia ecologica, (Gigliotti et al., 1992) e radar per il rilevamento delle mine antiuomo.

1 compito svolto dalle api bottinatrici deputate alla ricerca di pascoli e alla successiva raccolta di cibo (bottino)
2 nettari più o meno esposti ad eventuali inquinanti
3 secreti dalle api con la parziale digestione