L’utilizzo delle api, come bioindicatori, in numerose ricerche scientifiche è stato determinato da particolari caratteristiche etologiche e morfologiche di questo insetto volante. L’ape, infatti, non è immobile ma si sposta freneticamente da luogo a luogo nel compimento delle proprie attività vitali (comportamento simile a quello umano).

Così facendo accumula sul proprio corpo le contaminazioni presenti nell’ambiente circostante, rivelandoci informazioni preziose sulla qualità ambientale delle aree da loro assiduamente frequentate. L’ape preleva nel territorio circostante l’alveare (1,5 km di raggio), numerose sostanze come nettare, polline, acqua, melata e propoli; inoltre intercetta e veicola, con il suo corpo peloso, le particelle in sospensione atmosferica durante il volo ed essendo un sensore viaggiante – e questa è veramente una grande prerogativa – fa ritorno all’alveare mettendoci in condizione di individuare eventuali sostanze inquinanti attraverso sia il controllo numerico della popolazione che le analisi chimiche (G. Celli, 1983).
Se consideriamo che in un alveare in buono stato vi sono circa 10.000 bottinatrici e che ognuna visita giornalmente un migliaio di fiori, si può facilmente stimare che una colonia di api effettui 10 milioni di microprelievi ogni giorno, senza considerare il trasporto di acqua che nelle giornate calde può raggiungere anche alcuni litri (G. Celli e C. Porrini, 1991).

Il territorio, quindi, è tenuto costantemente sotto controllo da parte dell’ape, che è in grado con molta prontezza di percepire dinamiche di trasformazione in atto negli ambienti da loro frequentati e con altrettanta prontezza sono in grado di segnalarle. Tuttavia esistono alcuni fattori che limitano l’impiego dell’ape per la valutazione dello stato di salute dell’ambiente:

l’attività di volo dipende da una temperatura di almeno 10 °C, per cui, alle nostre latitudini, non è “utilizzabile” nel periodo invernale;
le api bottinatrici possono non ritornare all’alveare di origine per mortalità naturale, per deriva (rientrano in un altro alveare) o per mortalità indotta dai pesticidi a cui l’ape mostra un’alta sensibilità.

Sicuramente l’ape è un insetto opportunista, e se ad esempio trova un pascolo di suo gradimento nelle immediate vicinanze dell’arnia, non si lascia sfuggire l’occasione di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Infatti Knaffl (1953) prendendo in esame le distanze indicate dalle api con la loro danza del ventre (circolare e a forma di 8), ricavò indirettamente che circa il 90% delle bottinatrici provenivano da luoghi distanti non più di 2 km dall’arnia. Ciò non significa che, in assenza di pascoli vicini, non possano spingersi a distanze notevoli stimate nell’ordine di una decina di km ed oltre (Eckert, 1933). Sono stati fatti molti studi in proposito e si è scoperto che oltre i 13,5 km il volo dell’ape non avrebbe alcuna utilità, dal momento che consumerebbe quasi tutto il nettare raccolto.

Apis Mellifera

L’ape è estremamente ubiquitaria, vola ripetutamente di fiore in fiore, si posa sui petali e sulle foglie delle piante (sia spontanee che di interesse agrario) raccogliendo nettare, polline e propoli che possono essere più o meno inquinati da molecole di sintesi. Raccoglie attivamente la melata, di cui è molto golosa, che è una escrezione zuccherina dei Rincoti Omotteri (Afidi, Cocciniglie, Psillidi, ecc.) i quali si nutrono della linfa di molteplici specie di piante e cultivar.

Nell’arnia un altro compito svolto dalle operaie è quello essenziale di mantenere costante la temperatura durante tutto l’anno. In estate la tecnica usata nella termoregolazione consiste nello spruzzare sulle celle dei favi l’acqua raccolta nelle pozze, nei corsi d’acqua, sulle foglie (rugiada) e negli stagni, in modo che evaporando venga disperso il calore in eccesso. Si è calcolato che il fabbisogno idrico di un alveare in un anno si aggiri intorno ai 10 litri di acqua. Così facendo, l’ape svolge un’attività di campionamento attivo accumulando nei suoi prodotti e nel proprio corpo diversi tipi e quantità di particelle inquinanti. I rischi di avvelenamento o di contaminazione crescono ancora se si considera che tutte queste sostanze vengono stoccate all’interno del nido ed in quantità elevate: in una stagione un’arnia può produrre fino ad 80 kg di miele, 40 kg di polline e un quantitativo simile di propoli. Oltre all’attività di campionamento attivo, finora descritta, vi è quella di campionamento passivo, altrettanto importante.

L’ape è munita di una fitta peluria, frutto di una stretta coevoluzione con le piante da cui trae le sostanze per vivere. Questo corpo peloso permette loro di svolgere quella importantissima funzione di impollinazione incrociata (allogamia), che ripaga in pieno il mondo vegetale, intercettando un’infinità di granuli pollinici ovviamente trasportati di fiore in fiore. Nello stesso tempo, ma questa volta passivamente, intercetta sul proprio corpo pulluenti sospesi nell’atmosfera che inevitabilmente andranno a mescolarsi con il polline, il nettare ed il propoli e di conseguenza a contaminare l’arnia. Questi possono anche penetrare ed accumularsi nella profondità del loro corpo (fittamente attraversato dalle trachee – deputate alla funzione respiratoria), provocando spesso il decesso. Fin ora abbiamo analizzato, più specificatamente, il tipo di rapporti che intrattiene con l’universo che la circonda (interspecifici), dove al di là delle cause che hanno provocato un certo degrado ambientale, l’ape si è dimostrata un instancabile vettore attivo e passivo di molecole di sintesi nel proprio nido. L’analisi dei rapporti intraspecifici, più puramente sociali, come la diversificazione dei compiti e i continui scambi che avvengono tra tutti i componenti dell’alveare, rendono quest’ultimo paragonabile ad un “superorganismo” che si sviluppa, si differenzia e che con il suo metabolismo mette in circolo le eventuali sostanze inquinanti (Wilson, 1971).

Il nettare raccolto passa di bocca in bocca (trofallassi) lavorato e trasformato poi in miele. Di bocca in bocca passa anche il nutrimento per le larve, detto pane d’api che viene loro somministrato (escluse le regine e nei primi tre giorni di vita anche i fuchi e le operaie) con una frequenza impressionante. Nei primi nove giorni di vita la larva viene visitata 46 volte l’ora (alcune visite sono solo d’ispezione), ciò spiega come la sua massa possa aumentare di 1500 volte il peso alla nascita e come si possano concretizzare fenomeni di bioaccumulo (magnificazione). La trofallassi in primis e tutti gli scambi che continuamente avvengono tra loro (che lo fanno essere un insetto sociale per eccellenza) mantengono ancor di più in circolo tali sostanze, facendo sì che la vita del singolo venga fortemente condizionata dalla vita in comune.

Il profilo che fa Giorgio Celli (1992) ad un bioindicatore tipo, è molto calzante per questo insetto perché, riassume in breve tutte le sue qualità. Un indicatore biologico è per definizione un organismo che reagisce in maniera osservabile, macroscopica o microscopica, visuale o strumentale, alle modificazioni della sua nicchia ecologica o più in generale del suo biotopo.

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